Serena Sinigaglia, “La peste”

La peste di Albert Camus scandaglia a fondo l’animo umano e lo fa scegliendo un momento estremo, di assoluta emergenza, di sconvolgimento dell’ordinario. L’umanità di Camus è divertente, commovente, appassionante, sorprendente. L’autore francese ci guarda senza giudicarci mai, con occhi sempre nuovi. E ci propone una direzione possibile, un senso al caos, un freno alla paura.

Immagini del canale Youtube “Teatro Carcano”

La peste di Albert Camus è in scena al Teatro Carcano di Milano dal 22 al 27 marzo, con l’adattamento di Emanuele Aldrovandi e la regia di Serena Sinigaglia. Ne sono protagonisti Marco Brinzi, Alvise Camozzi, Matteo Cremon, Oscar De Summa e Mattia Fabris.

Intervista a Serena Sinigaglia

Perché hai definito “La peste” un testo necessario?

Perché parla profondamente dell’uomo, dei suoi dubbi e delle sue fatiche. E’ necessario perché ci aiuta a comprendere meglio la vita.

E’ un testo facile da adattare per il teatro?

Sì. Forse è il romanzo di Camus con un respiro più ottocentesco come scorrimento della storia e forza epica dei personaggi, quindi è una prosa decisamente immediata. E’ stato un piacere adattarlo, fluiva da sé. Andava solo riorganizzato per la scrittura scenica, ma fondamentalmente c’erano già tutti gli ingredienti: grandi personaggi, grandi caratteri, una storia avvincente e questioni appassionanti.

Perché “La peste” scandaglia a fondo l’animo umano?

Ovviamente per Camus la peste è metafora della malattia e della guerra, ma non parla solo della peste fuori dell’uomo ma anche di quella dentro di lui. Per l’autore la peste è l’uomo, il primo problema è questo. E’ l’uomo che genera la guerra ed è lui che deve combattere e riferirsi a un male che non capisce e che non sa curare. In questo senso è un momento estremo che permette all’essere umano di vedere chi è veramente. Nei momenti estremi noi capiamo chi siamo e quindi nella cittadina di Orano, dove scoppia l’epidemia e si entra in lockdown, le persone si rispecchiano tra loro, arrivando al fondo del proprio lato umano.

La risposta di Camus è luminosa e solare. Per questo mi ha accolta e accompagnata, mi ha dato anche molta fiducia e speranza, perché Camus dice che noi siamo la peste ma anche l’antidoto a essa, nella misura in cui ci ricordiamo che l’uomo è anche in grado di costruire e non di distruggere, è capace di amare e di provare quel sentimento semplicissimo che si chiama empatia, di fare bene il proprio lavoro per gli altri e non solo per se stesso. Fa questo alla maniera dei grandi autori, all’interno di grandi personaggi che diventano tridimensionali e che sembrano amici per tutto quello che noi abbiamo vissuto e che in fondo stiamo vivendo ancora oggi. E’ un faro luminoso potentissimo che non guarda con indulgenza, ma che dà speranza e tende la mano.

Hai trovato quindi delle analogie con quello che il mondo ha vissuto negli ultimi due anni?

Totalmente. E’ completamente coincidente anche alla guerra, è incredibile. Chiaramente Camus l’ha scritto negli anni Cinquanta e si sente ancora l’eco della seconda guerra mondiale. Per questo dicevo che la peste è una metafora dei momenti di disorientamento, di male e violenza estremi che l’uomo si trova a dover combattere in una prospettiva più ampia, pubblica e non individuale. Quello che lui racconta sembra quello che abbiamo vissuto noi in questi anni di pandemia e che stiamo tuttora vivendo di fronte alla guerra in Ucraina, quindi non si può non passare attraverso l’umanesimo e una dialettica su quale sia il senso dell’uomo e su quali uomini possiamo essere. E’ inevitabile e ce ne rendiamo conto nei momenti estremi, perché è da lì che si trovano le risorse per dare un senso alla propria vita e una risposta a quei momenti così difficili.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Si ringrazia Cristiana Ferrari per la collaborazione
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