“I PROMESSI SPOSI”, UN MATRIMONIO CHE NON S’HA DA FARE

Debutta martedì 23 gennaio al Teatro Fontana di Milano, dove rimarrà in scena fino a domenica 28 I promessi sposi, tratto dal capolavoro letterario di Alessandro Manzoni. La regia e l’adattamento dello spettacolo sono di Michele Sinisi, anche protagonista in scena con Diletta Acquaviva, Stefano Braschi, Gianni D’Addario, Giulia Eugeni, Francesca Gabucci, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster e Bruno Ricci. Uno dei testi più classici ma poco rappresentati in teatro con Renzo e Lucia, “un matrimonio che non s’ha da fare”, la paura di Don Abbondio, la spavalderia di Don Rodrigo, il coraggio di Fra Cristoforo, la solitudine della Monaca di Monza, la conversione dell’Innominato. E su tutto due protagoniste che non guardano in faccia a nessuno: la Provvidenza, più inesorabile del destino stesso, e la Peste, che tutto travolge per poi far rinascere in una dimensione quasi catartica.

La parola al regista Michele Sinisi

“Perché ha definito la storia di Renzo e Lucia il punto di partenza di un viaggio umano?”

“Perché tutto parte dall’assunto scolastico in cui affonda le radici questo grande romanzo. Non si è mai riusciti a divertirsi, nel senso umano del termine, all’idea di conoscere e approfondire la bellezza e l’architettura letteraria di questo testo. Quindi il viaggio umano comincia anche dallo scoprire un rapporto umano con il romanzo. Inizia in modo misterioso da una memoria del nostro rapporto con la scuola, che è l’ambiente in cui abbiamo conosciuto ‘I Promessi Sposi’, e poi i primi otto capitoli permettono alla storia di andare avanti con una struttura un po’ più dialogica. Il testo poi si apre anche a un’analisi piuttosto saggistica del romanzo che vuole esaminare l’umanità dell’epoca con un salto di 200 anni. E’ stato scritto nel diciannovesimo secolo, ma parla di vicende accadute nel 1600. Quello che noi scopriamo durante lo spettacolo, ascoltando le parole del Manzoni, è che sembra quasi si parli di un’umanità infinita che finisce anche per ripetersi e per essere riconoscibile, anche oggi”.

“E’ come se la vicenda non riguardasse più i singoli personaggi, ma l’intero genere umano, giusto?”

“Sì, soprattutto se pensiamo all’addio ai monti. Il fatto di dover lasciare la propria terra per vari motivi ci fa scoprire quanto quella necessità di viaggiare, di dover lasciare le proprie sponde, è a una cosa a cui ancora oggi assistiamo per vari motivi, non solo per le tragedie, ma anche per necessità di vario genere, anche lavorative. E  per un attimo nella nostra vita o nella nostra giornata ci capita sempre più spesso di pensare al nostro paese natìo”.

“Cosa significa che il mondo intero è il territorio dell’animo?”

“La cosa bella di questo romanzo è che parte proprio da una descrizione topografica di un paesaggio. Mi piace sempre pensare quel paesaggio come la rappresentazione geografica dell’animo umano, come se quei luoghi non fossero altro che la risultante della presenza dell’essere umano, che in modo diretto o indiretto plasma il territorio intorno a sé. Mi piace pensare che questo romanzo sia una grande cartina per poter conoscere meglio il paesaggio umano”.

“Quali sono le tematiche più importanti che lo spettacolo mette in discussione?”

“Partendo da quella che era la mia curiosità, la mia ambizione e anche il senso di inadeguatezza e di inferiorità rispetto a certe tematiche, è l’aspetto spirituale. Credo che non ci sia niente di più bello per un essere umano qualsiasi e per noi che facciamo questo mestiere che confrontarsi con il mistero e la spiritualità, senza la necessità e l’ansia di dover risolvere questo rapporto, ma con l’esigenza di starci, sia dal punto di vista contenutistico che da quello formale”.

(intervista e riprese video di Andrea Simone)