“NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE”: LE TRAME DI KOLTÈS

L’incontro di due uomini e un frastuono silenzioso in una notte in cui può accadere qualunque cosa. Tutto può diventare realtà e i desideri più segreti possono essere raccontati e realizzati. Allo stesso modo la violenza può esplodere in qualsiasi momento. Proprio per questo è importante il peso che sì dà a ogni parola e ogni movimento. In scena ci sono due personaggi: il Dealer e il Cliente. Uno dovrebbe vendere, l’altro comprare, ma nulla è come sembra: tra ambiguità e insinuazioni è facile perdersi, mentire e mascherarsi.

Nella solitudine dei campi di cotone è stato scritto dal drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès nel 1986 ed è in scena al Teatro Out Off di Milano fino al 4 marzo. La regia è di Roberto Trifirò e ne sono protagonisti Stefano Cordella e Michele di Giacomo.

Intervista a Roberto Trifirò

“Quanto sono distanti o quanto sono vicini i mondi di questi due personaggi?”

“Sono vicini e distanti come avviene in tutte le relazioni, amorose e non, come in questo caso. Può però capitare anche in una relazione affettiva promettente e che fa nascere dei dubbi generati da un rapporto che crea aspettative. Il desiderio si tramuta in paura e quindi nasce un conflitto tra i due, che alla fine crea i presupposti per un combattimento”.

“Quanto sono frammentate le identità dei personaggi?”

“Molto, perché c’è uno scambio di desideri che uno esprime e l’altro è in grado di appagare. In questo caso i personaggi non hanno nemmeno un nome proprio: si chiamano Dealer e Cliente. Quindi, non sapendo chi sono, fanno anche più fatica a capirsi e a relazionarsi. E’ la scrittura di Koltès a stabilire così: è piena di lunghe espressioni quasi filosofeggianti che si trasformano in un frammento di dialogo solo nell’ultimissima parte”.

“Nello spettacolo trova spazio un elemento importante: il deal. Vuole spiegare ai nostri lettori di cosa si tratta?”

“Rispondo riportando testualmente la definizione dell’autore: ‘un deal è una transazione commerciale basata su valori proibiti o severamente controllati e che si conclude in spazi neutri, indefiniti e non previsti per questo uso, tra fornitori e postulanti, per tacita intesa semi-convenzionale o conversazioni a doppio senso, allo scopo di limitare i rischi di tradimento e imbroglio che una simile operazione implica. Non importa a che ora del giorno e della notte, indipendentemente dagli orari regolamentari di apertura e di commercio omologati, ma di preferenza negli orari di chiusura di questi’. Ecco quindi che abbiamo già l’idea di quanto sia difficile o criptica questa pièce, che però presenta momenti di estrema concretezza, inducendo così alla riflessione”.

“In che cosa sta la grandezza della scrittura di Koltès?”

“Nella poesia, perché è un poeta che parla per metafore. Non si esprime con una scrittura puramente spiccia o realistica, ma il suo stile rimanda a quello di Jean Genet per elevatezza e ricercatezza. Si colloca però sempre all’interno di una situazione ben definita. Koltès non scrive per il gusto di far poesia e teatro. La sua grandezza sta nella capacità di far arrivare al pubblico un linguaggio tutto suo. Purtroppo l’autore non ha potuto svilupparla fino in fondo perché è morto di Aids nel 1989 a soli 41 anni”.

“Dalla sera del 10 febbraio si è molto parlato – sia a voce sia sui media sia sui social – del monologo di Koltès sui migranti interpretato da Pierfrancesco Favino durante l’ultima serata del Festival di Sanremo. Lei lo ha visto? Cosa ne pensa?”

“Sì, l’ho visto. Koltès aveva saputo prevedere perfettamente l’emarginazione, la multirazzialità e la mancanza di comunicazione tra esseri umani. C’è una grande differenza tra recitare un estratto di pochi minuti e un testo intero di un’ora e mezza. Preferisco pensare a quest’autore nel contesto di uno spettacolo, anche se in occasione dell’ultima serata sanremese quel monologo è stato ben recitato. Trovo che Pierfrancesco Favino sia un bravo attore, ma Koltès è un’altra cosa”.