Il Pacta Salone di Milano propone fino al 4 dicembre in prima assoluta “Uno nessuno centomila” di Luigi Pirandello. Lo spettacolo è diretto da Annig Raimondi, anche presente in scena con Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini e Alessandro Pazzi.
Vitangelo Moscarda (Gengé per gli amici) è un uomo comune e normale. Conduce una vita agiata e priva di problemi grazie alla banca e alla connessa attività di usuraio ereditata dal padre. Un giorno questa tranquillità viene turbata da un commento della moglie Dida: il suo naso pende un po’ da una parte. Da questo momento la vita di Gengé cambia completamente. Si rende conto di apparire agli altri diverso da come si è sempre sentito. Così decide di trasformare la propria vita e nella speranza di scoprire chi sia veramente compie azioni che vanno contro a quella che era stata la sua vera natura fino a quel momento.
Teatro.Online ha intervistato Annig Raimondi, regista e protagonista dello spettacolo.
“Perché in questo caso la pazzia viene vista come uno degli unici modi possibili di stare al mondo?”
“Nella dimensione nella quale si muove Vitangelo Moscarda ritroviamo tutti gli ostacoli e i cliché di tutto il sistema che la società impone. Soprattutto la forma che impone per essere riconosciuti come una delle varie marionette che stanno in fila ordinate per comporre l’andamento normale della vita. Le direzioni che prende Vitangelo Moscarda sono quelle di rompere questi cliché che vengono messi addosso a lui e che lui stesso si teneva senza accorgersene per essere adeguato al mondo esterno. Per mondo esterno intendo quello che ha un riconoscimento sociale. Quindi al suo ruolo di bravo borghese, figlio di un banchiere, anche se in realtà era un usuraio.
Lui comincia ad andare contro chi ha un comune intendimento della vita. Non vuole più essere come la società gli impone per essere accettato. In questo modo è sicuramente considerato pazzo perché è anomalo il suo atteggiamento rispetto a quanto si era sempre immaginato che fosse nella vita, nella sua forma riconosciuta.
La sua non è in realtà pazzia, ma un modo di vivere in maniera diversa anche se non riconosciuto come socialmente composto. Quindi va contro ai cliché del buon borghese e vuole invece trovarsi una propria libertà di espressione. Questo è un universo interiore che prende forma esteriormente e che destabilizza tutti quelli intorno. L’unico modo è applicare un altro cliché dicendo che è pazzo. Non è pazzo, è semplicemente contrario a un cliché prestabilito”
“Secondo lei quest’opera di Pirandello è più surreale o più grottesca?”
“E’ un’opera che in realtà contiene tantissimi elementi. E’ l’ultima che ha scritto nell’arco di 12-15 anni. Quindi contiene anche tutti gli elementi di altre opere che man mano Pirandello andava scrivendo, sia per il teatro che nelle novelle. E’ un romanzo, non è teatro. Ha delle forme grottesche ma ci sono anche molta metafisica e molti elementi surreali. Il tema principale è sempre l’eterno conflitto tra la forma e la vita, tra ragione e istinto.
E’ uno spettacolo che mette in risalto anche gli aspetti comici della vita nelle cose più banali. Ci si ritrova perfettamente in questa figura che a un certo punto decide di cambiare tutto. E’ molto vero. Attraverso delle forme più grottesche ci parla di qualcosa di assolutamente quotidiano. Dopo entra anche in altri ambiti molto più poetici o surreali. E’ molto composita, proprio perché è l’ultima e in questo romanzo Pirandello ha messo dentro tutto”.
“E’ il racconto di un uomo che sente sfaldarsi la propria identità?”
“Sente che l’identità che aveva pensato di avere non è quella. Capisce che gli altri gli attribuiscono un altro tipo di identità che lui non si immagina. Allora vuole cercare di distruggere tutte queste identità, perché sono le forme che ciascuno gli appiccica addosso, per cercare la sua forma autentica. Una forma che non sarà più quella iniziale del bravo signorotto borghese, ma quella di uno che a un certo punto rompe il destino: quello di avere avuto un padre banchiere e usuraio e di essere considerato dopo la morte del padre un usuraio lui stesso. Lui cerca di rompere tutto ciò e alla fine farà degli atti di generosità inaspettati.
Donerà dei soldi a chi ha bisogno. Regalerà delle case e fonderà addirittura un ospizio nel quale si ritirerà felicemente, perché dopo tutto questo viaggio per rompere tutte le maschere e la forma che gli impongono gli altri, riconosce che c’è sempre una lotta interna. Però è più felice, più rilassato. Non è più uno che si guarda l’ombelico, ma guarda fuori. Vuole avere un respiro più aperto sul mondo. Direi una parola che può essere anche fraintesa, ma è panteistico. Diventa le cose di fuori, dopo tutto questo lavorio su se stesso”.
“E’ un testo che impone una fedeltà rigorosa a quanto scritto da Pirandello oppure ogni regista che la porta in scena può permettersi di darne una sua visione personale?”
“Sicuramente ciascuno può avere la sua visione personale. Però c’è una grande forza nella parola di Pirandello e nel suo modo di scrivere. Comprende tantissimi registri: scene da commedia, riflessioni, momenti filosofici, comici, drammatici e il mito che si insinua a un certo punto. Per cui non si può prescindere da questa composizione molto articolata. Non è sicuramente facile farne un adattamento teatrale. Nello stesso tempo però è divertente, perché la suddivisione della personalità in tanti Moscarda ha fatto sì che io scegliessi una strada.
Ho preso il Moscarda vecchio, che è quello che ci racconta fin dall’inizio la storia, e il Moscarda giovane, cioè quello che l’ha vissuta fin dal principio con le vicende della moglie. Poi ho preso la moglie e l’amica della moglie, una figura un po’ strana che gli sparerà. Comunque un’imposizione al rigore della sua scrittura è dovuta, perché Pirandello ci guida attraverso un suo occhio. Però è inevitabile che uno veda attraverso la propria lente”.