“VALORE D’USO”: ALLA CONQUISTA DELLO SPETTATORE

A tutti piace piacere. Spesso però il giudizio degli altri diventa insopportabile. Il desiderio di compiacimento da parte degli altri trova forse la sua forma più lampante nel teatro. Come al Teatro Verdi di Milano dove dal 28 al 30 settembre, sei attori catapultati per caso in un’arena cercano ognuno a proprio modo – e con mezzi e parole diverse – una forma, un’azione e un gesto per affascinare e stupire il pubblico. Sembra che chiedano continuamente. “Vado bene così?”

Valore d’uso è diretto da Antonio Viganò che ha ideato anche le scene. Ha collaborato alla drammaturgia Gigi Gherzi. Sulla scena dello spettacolo “targato” Atir Ringhiera troviamo Matteo Ambrosini, Edoardo Busnati, Cristina Ciminaghi, Luana De Lucia, Massimiliano Pensa e Chiara Tacconi.

La parola ad Antonio Viganò

“A parte il desiderio di fare colpo sul pubblico, qual è la vera trama dello spettacolo?”

“Sono due i concetti molto forti, secondo me: il primo è che usciamo dalla definizione di teatro sociale che contiene sempre il concetto di ‘diverso’. Il secondo è che si torna a delle circolarità: ci sono degli attori che si misurano con un testo e delle pratiche teatrali. Lo vogliono dimostrare a un pubblico che probabilmente viene sempre con uno sguardo un po’ viziato, consolatorio e in qualche modo un po’ strano. La trama dello spettacolo sta appunto in questo: nel gioco dello sguardo che normalmente ha il pubblico quando va a immaginarsi di trovare un teatro sociale, anche se viene definito un teatro sociale d’arte. E’ un gioco tra lui e gli spettatori, per ribadire il concetto che in scena ci sono delle circolarità e non delle categorie che si chiamano ‘handicap’, ‘malati mentali’ o ‘disagiati’.”

“Siamo di fronte a un processo di creazione teatrale, dove lo spettacolo non nasce prima della messa in scena, ma viene costruito durante il suo svolgimento?”

“Sì e oltretutto è il risultato della collaborazione che dura da un po’ di anni tra noi che siamo una compagnia un po’ anomala – nel senso che siamo una compagnia professionale formata da uomini e donne con situazione di handicap, che si chiama ‘ Teatro alla ribalta’ – e la parte sociale che si rifà a un’attività che riguarda questo. Questo laboratorio ha bisogno di essere portato a termine per mettere alla prova tutte le cose che si sono fatte e le sperimentazioni teatrali dei linguaggi attuate durante il laboratorio. Questo avviene durante le prove e la messa in scena.”

“Quanto sono simili e quanto sono diversi tra loro gli strumenti con cui gli attori cercano di fare colpo sul pubblico?”

“Sono per tutti assolutamente uguali. Il problema è che chi invece è segnato da una disabilità ha due cose da sconfiggere: la prima è che la sua condizione – evidente in scena – possa diventare comunicazione; la seconda è che la comunicazione deve essere all’altezza della qualità. Noi riusciamo a fare un progetto di teatro inclusivo solo se siamo artisticamente molto ‘alti’, perché altrimenti restituiamo al pubblico esclusivamente il tema delle mancanze e dell’handicap visti come una privazione. L’handicap invece non rimanda a una privazione, ma a una diversa possibilità ed è questo che mi interessa, ma mi interessa solo nel momento in cui può diventare una comunicazione vista come forma d’arte.”

“Il teatro è per eccellenza il luogo dove si cerca di conquistare gli spettatori, ma nel suo spettacolo quest’aspetto è particolarmente esasperato, è così?”

“Sì. Abbiamo cercato di giocare sulla questione degli sguardi, ma non credo che appartenga a tutto il teatro o a tutti gli attori. Penso che sia un gioco che noi possiamo fare perché sappiamo con quale sguardo dobbiamo combattere e dialogare, perché il tema è quello dello sguardo nell’altro. E’ un tema che c’è in teatro ma anche nella vita. E’ l’altro che si definisce e bisogna cercare di sfruttare questa definizione.”