“VERLAINE+RIMBAUD (UN’ORA ALL’INFERNO CON TE)”

Una prima assoluta sulla vita dei due poeti più tormentati della letteratura francese. Verlaine + Rimbaud (Un’ora all’inferno con te) è lo spettacolo con cui Pacta dei Teatri riapre al pubblico dal 24 al 30 maggio il Salone di Via Ulisse Dini a Milano nel pieno rispetto delle norme anti-Covid.

Lavorando sul testo dell’autrice Maddalena Mazzocut-Mis, tra poesia, colpi di scena, autolesionismo, passione, desiderio e un rapporto malato (per non dire perverso) la regista Annig Raimondi analizza gli aspetti più profondi di una storia in cui Arthur Rimbaud (interpretato da Edoardo Rivoira) ci viene presentato come l’eroe del fallimento, mentre Paul Verlaine (che ha il volto di Alessandro Pazzi) sacrificherà per lui la propria vita.

Parlano i protagonisti e la regista

Edoardo Rivoira, che cosa ti ha colpito di più del tuo personaggio, cioè Rimbaud?

Il fatto di interpretare un personaggio esistito realmente, che però ha sfiorato costantemente alcuni limiti come la ricerca di una verità della percezione. Rimbaud diceva di essere non un poeta ma un veggente, perché attraverso stati allucinati e alterati cercava di raggiungere la vera essenza delle cose. In lui vedo un bambino che si fa delle domande sul senso della vita e sul perché stiamo al mondo. Se noi adulti, crescendo ci mettiamo l’anima in pace e capiamo che queste domande non hanno risposta, per Rimbaud non fu così: non si rassegnò mai a non trovare una spiegazione a quesiti così essenziali.

Chi come lui cerca di trovare la verità con l’arte segue sempre questa direzione, quella cioè di non arrendersi. Non si accontentò mai. Anche quando ormai faceva parte del mondo della poesia e dell’arte, si dimostrò avulso alle regole e alle dinamiche di quel mondo stesso. Lottava per la ricerca più profonda. Poi dopo trent’anni decise di smettere completamente. Noi però non abbiamo visto questa scelta come una rinuncia al mestiere di poeta perché non gli piaceva più, ma semplicemente come l’andare in un’altra direzione. In questo cambio così repentino e drastico, io vedo una purezza di cuore che lo annovera tra i grandi. Mi sento investito di una grande responsabilità a portare in scena questa figura, che per me rappresenta quasi un superuomo.

Alessandro Pazzi, che cosa successe veramente la notte del 10 luglio 1873 a Bruxelles e qual è l’analisi psicologica che ne fai?

Vennero sparati i colpi più famosi della letteratura francese. Quel giorno Verlaine comprò in un’armeria insieme a Rimbaud un revolver per 23 franchi. Una volta in camera, lo mostrò a Rimbaud, dicendogli che la pistola aveva lo scopo di impedire la sua partenza. L’aspetto inquietante è che nella stanza accanto c’era la madre di Verlaine. Tra i due scoppiò una scenata e a un certo punto Verlaine disse a Rimbaud di aver comprato la pistola per se stesso e per lui. Nel rocambolesco tentativo di farlo rimanere, gli sparò in maniera maldestra, data la sua incapacità di padroneggiare un’arma, ferendolo leggermente al polso. Verlaine ebbe una crisi isterica e chiese alla madre di sparargli alla tempia.

La mia analisi psicologica è che la richiesta di Verlaine alla madre rappresentasse un tentativo brutale di autodistruzione. Nello spettacolo ci sono diverse battute del testo in cui io-Verlaine parlo a me stesso, per esempio quando dico: “Ho provato a uccidermi”. Più avanti, in una sorta di sogno, affermo di essermi suicidato. Quindi quel tentativo di sparare a Rimbaud era probabilmente un tentativo di sparare a se stesso. In seguito Verlaine andrà in carcere, anche se gli anni della prigione non furono per lui così terribili, perché segnarono la sua conversione. Verlaine però aveva sempre bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui. Una bellissima biografia di Stephan Zweig lo dipinge come un uomo con una vena nostalgica e malinconica, un aggressivo-passivo. Quei colpi di pistola non rappresentano un tentato omicidio ma la proclamazione malsana di un possesso e di un amore.

Annig Raimondi, che visione del mondo avevano Verlaine e Rimbaud?

Dato il loro carattere opposto e complementare, era una visione del mondo molto diversa: Verlaine cercò di inserirsi all’interno della società nella maniera più convenzionale. Era sposato, faceva parte del circolo dei parnassiani e rispettava le regole. Rimbaud invece era un ribelle e uno spirito libero, ma non possiamo immaginare che cosa gli piacesse veramente perché andava contro tutto ciò che limitava la libertà dell’uomo e la sua capacità di vivere pienamente. Era contrario alle restrizioni piccolo borghesi e detestava la routine e le convenzioni che smorzano l’entusiasmo quotidiano nelle cose. Lottava per andare incontro a un selvaggio ritorno alla natura. Aspirava alla vita come grande poesia, ma soprattutto alla poesia che vedeva come un mezzo per scrivere il suo manifesto. Attraverso l’arte parlava della vita.

A un certo punto, quando capì che attraverso l’arte spinta all’estremo era impossibile giungere all’ignoto, scelse di condurre la sua lotta per la vita da solo. Quindi chiuse con la poesia perché decise che era inutile e partì per l’Africa dedicandosi al commercio di caffè e armi. La visione è quella di due mondi molto diversi, che però attraverso il loro incontro, diventa una visione molto rivoluzionaria del mondo. Verlaine ha trovato in Rimbaud il veggente folle e allo stesso tempo lucido, anche quando toccava il limite delle cose.

Fu vera gloria la loro, Annig, secondo te?

Verlaine puntava più sulla musicalità, cercando di cogliere attraverso la poesia gli afflati più musicali che alleggerissero il quotidiano. Rimbaud faceva il contrario: la sua poesia era sempre una lancia in resta che tagliava ogni cosa. La loro vita stessa è un’opera d’arte. Se non si fossero incontrati, non sarebbe nato quel tipo di poesia. Quando un personaggio – in questo caso due – diventa un mito, vuol dire che ha colpito l’immaginario collettivo, nel bene e nel male. Quindì sì, secondo me fu vera gloria.

  • Foto di scena di Emma Terenzio
  • Si ringrazia Giulia Colombo per la collaborazione