Michele Sinisi, “La grande abbuffata”

Torna al Teatro Fontana, dopo il notevole successo delle passate stagioni, La grande abbuffata diretto da Michele Sinisi. Tratto dal film di Marco Ferreri con lo stesso titolo, lo spettacolo ci racconta la storia di quattro uomini liberi e gioiosi, che programmano la propria morte in un’orgia di cibo e sesso che diventa così la perfetta rappresentazione di una società sempre più avida e mai sazia.

Immagini del canale “Elsinor Teatro Fontana”

La grande abbuffata è in scena fino al 20 febbraio e – oltre alla drammaturgia firmata dallo stesso regista Michele Sinisi e da Francesco Maria Asselta, vede protagonisti Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’Addario, Sara Drago, Francesca Gabucci, Marisa Grimaldo, Stefania Megri e Donato Paternoster.

Quattro domande a Michele Sinisi

Siamo di fronte allo spaccato sociale di una società fagocitata dalla sua stessa ingordigia?

Assolutamente sì. L’esplosione annunciata del water – come avviene nel film – succede solo per l’accumulo e la quantità di conoscenza, segni, significati e opportunità che riguardano la nostra società contemporanea. Noi siamo quindi artefici del nostro stesso futuro, e ancor di più del nostro presente. Non è dunque cambiato molto dal 1973 – data d’uscita del film – fino a oggi, quando abbiamo avuto la possibilità di rivederlo e attualizzarlo. Sul solco dell’attualizzazione, scopriamo che nulla è cambiato. Non abbiamo imparato molto.

Che cosa accomuna tutti i protagonisti deLa grande abbuffata?

Solo grazie all’amicizia tra gli attori del film, ma anche tra quelli di questo spettacolo, è possibile condividere un atto così estremo: quello di sentire la vita avvicinandosi sempre più alla morte. Solo con gli amici si può parlare di certi temi e fare certe esperienze, perché cadono i freni inibitori e si diventa un tutt’uno. Si riescono quindi a toccare anche argomenti un po’ più scomodi che ci riguardano; si cercano di condividere le domande più difficili a cui dare delle risposte.

Cosa c’è di diverso rispetto al film?

La diversità che coglierei è molto legata a un fattore contingente all’allestimento: noi abbiamo preparato lo spettacolo in tre fasi durante il lockdown del gennaio 2021, fermando e riattivando tutto perché il debutto veniva continuamente rimandato. Eravamo rinchiusi in teatro a fare le prove con le mascherine. E’ venuta quindi fuori una bulimia audiovisiva, che ha preso il sopravvento su quella sessuale e gastronomica del film. Con lo sguardo di oggi, noi vediamo La grande abbuffata di Ferreri in modo più innocente, sereno e rilassato. Credo che ai protagonisti scoppiasse il cervello per la quantità di sapere su cui si affacciavano durante il boom economico. Oggi noi abbiamo rinnovato quel chiasso nella nostra testa attraverso mezzi nuovi che ci permettono di comunicare; sono una grande opportunità. Allo stesso tempo però, se non vengono governati, rischiano di diventare un veicolo di ulteriore stress.

Perché in questo spettacolo c’è una contaminazione continua tra palco e platea?

E’ legata alla curiosità di capire quale sia oggi il baricentro del rito teatrale in termini spaziali ed emotivi. La pandemia lo ha ulteriormente rinnovato. Dov’è il rito? Io credo che il teatro debba cominciare a rispecchiare nella tensione questa ricerca e questo riassestamento del gruppo, della platea e degli attori.

  • Intervista di Andrea Simone
  • Foto in evidenza di Luca Del Pia
  • Si ringrazia Martina Parenti per la collaborazione
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